Oceano in profondità

Green economy, green influencer, green growth, Green washing, termini oggi molto utilizzati, relativi ai processi industriali e ai modelli di consumo che puntano a minimizzare il loro impatto sull’ambiente.

Ma la gamma cromatica da tenere in considerazione per la transizione ecologica non si limita al solo colore verde: comprende in fatti anche il blu.

Blu che rappresenta la risorsa base della vita, l’acqua, e che nell’accezione di Blue economy è da associare sì all’acqua, ma prevalentemente a quella salata. 

Gli oceani ricoprono infatti il 71% della superficie terrestre, regolano il clima e distribuiscono il calore, assorbono dal 30 al 50% della CO2 prodotta dalle attività umane e forniscono beni primari per la sussistenza di più di tre miliardi di persone, dal pesce pescato per nutrirsi, alla possibilità di avere introiti dalle attività turistiche legate al mare.

La blue economy comprende tutti quei settori economici legati all’uso e allo sfruttamento delle risorse marine, come la navigazione, la pesca, la produzione di energia, le attività legate ai porti, ai cantieri navali, all’acquacoltura, al turismo costiero, ma anche l’estrazione off-shore di combustibili fossili ed il deep seaminig, ovvero la ricerca nei fondali marini di minerali e materie prime critiche.

Tuttavia la Blue Economy basata sugli oceani oggi non può prescindere dalla componente di tutela e uso sostenibile delle risorse marine.

Le più importanti organizzazioni internazionali e sovranazionali – Nazioni Unite, UNESCO, Unione Europea – promuovono la crescita economica di questi settori, ma a condizione che venga garantita la salute degli ecosistemi oceanici.

C’è quindi un valore economico – secondo uno studio di Oceanography, il valore della Blue Economy ammonta a circa 2 mila miliardi di dollari ogni anno – che deve sottostare a un valore ecologico.

Se così non fosse, quello stesso valore economico andrebbe gradualmente perso.

Prendendo in considerazione il settore della pesca, la FAO ha rivelato che un terzo degli stock ittici globali è sfruttato in modo eccessivo, mentre il 60% è pescato al massimo.

Ciò significa che i pesci vengono catturati più velocemente di quanto possano riprodursi per sostenere i livelli di popolazione: gli attuali livelli di cattura di pesci sono dunque insostenibili e fondamentalmente abbiamo raggiunto i limiti delle risorse ittiche che potrebbero essere prelevate dagli oceani e dai mari.

Questo non comporta solo la riduzione della redditività derivante dalle vendite del pescato, ma anche una spirale negativa per tutto l’ecosistema e la popolazione.

Meno specie presenti comportano infatti il declino di altre specie, quelle che si trovano sopra la catena alimentare e che si cibavano delle prime.

Non è solo la pesca insostenibile a degradare la salute degli oceani, così vale per tutte le altre attività che tendono a sovra sfruttare le risorse o a inquinare l’ambiente.

Si stima, per esempio, che ogni anno 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica e 1,5 milioni di tonnellate di microplastiche finiscano negli oceani; di queste circa l’80% proviene dalla terraferma, dai deflussi agricoli, dalle acque reflue non trattate.

L’ingestione di particelle di plastica da parte dei pesci impedisce loro la digestione degli alimenti e può favorire la presenza di inquinanti chimici tossici nel loro organismo.

Inquinanti che poi finiscono nell’uomo una volta che mangia il pescato. Inoltre la sempre maggiore presenza di anidride carbonica in atmosfera sta acidificando gli oceani e riducendo i livelli di ossigeno, danneggiando o uccidendo piante marine, animali e altri organismi.

L’aumento delle temperature comporta l’innalzamento del livello del mare, aumentando il rischio di sfollamento per più di centinaia di milioni di persone che vivono nelle zone costiere a rischio.

Per questo è necessario promuovere un’economia blu veramente basata su attività sostenibili e che non danneggino l’ambiente marino.

In questa direzione si stanno muovendo alcune istituzioni e governi, attraverso l’adesione a politiche che tutelano l’ecosistema marino: come il trattato sull’alto mare, che regolamenta la pesca o l’estrazione mineraria in alto mare (le zone che si trovano al di là della Zona Economica Esclusiva nazionale), o l’accordo stilato alla COP15 sulla Biodiversità per rendere protette il 30%delle aree marine globali.

O ancora le politiche per vietare l’uso di plastica usa e getta e quelle per limitare le emissioni di CO2.

La blue economy quindi è collegata a quella green e ad ogni ambito della nostra vita. Include sì benefici economici, ma anche benefici ambientali e sociali che possono non essere commercializzati, come lo stoccaggio del carbonio, la protezione delle coste, i valori culturali, la biodiversità.

Per l’Italia, che può essere considerato un paese marittimo, la blue economy: la sua costa ha una lunghezza di circa 8.300 km e il suo benessere e sviluppo sono legati al mare in modo indissolubile.
Proprio per questo e perché è necessario parlare dell’ importanza degli oceani per l’umanità e il pianeta, dal 30 giugno al 2 luglio sull’Isola d’Elba si terrà il festival SEIF – Sea Essence International Festival -, il primo festival internazionale dedicato alla salvaguardia e alla valorizzazione del mare e della sua essenza.
La Blue economy per un ambiente sostenibile
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